Intervista a Ella Marciello
Disinnescare la violenza a partire dalle parole
Ella Marciello
Direttrice creativa, copywriter, autrice e communication strategist. Muove i primi passi nell’ambito della comunicazione nel 2010, prima in azienda e poi in diverse agenzie pubblicitarie. Ha lavorato come copy, strategist e direttrice creativa trasversalmente all’ATL e al BTL, nell’ambito della divulgazione e degli eventi culturali e come docente in molteplici realtà formative, tra cui lo IED di Torino, la Scuola Holden e l’Università Cattolica. Negli ultimi anni ha portato avanti, attraverso campagne sociali, le tematiche legate alla parità di genere e alla comunicazione inclusiva e responsabile, venendo inserita tra le Unstoppable Women di Startup Italia come una delle 1000 donne che stanno cambiando il nostro paese. Il suo primo libro, uscito nel 2022, si intitola “Scrittura Ribelle”, con la prefazione di Paolo Iabichino. Nel 2023 ha vinto il primo premio “La comunicazione che fa bene” (Touchpoint Strategy Award) con una campagna che affronta stigma e stereotipi sulla salute mentale.
La violenza fisica e il femminicidio sono soltanto l’apice, la forma più visibile della violenza maschile sulle donne. Spesso quest’ultima si manifesta sotto forme più subdole, mimetizzate o “normalizzate” dal contesto culturale, che in molti ambienti, tra cui quelli lavorativi e aziendali, passano attraverso il linguaggio.
Interrogarci sulle parole e sull’effetto che queste hanno sulle persone è il primo passo per attivare un “sistema di allarme” sul pensiero che sta dietro a quelle parole e riuscire così a disinnescare automatismi e stereotipi.
Ne abbiamo parlato con Ella Marciello, direttrice creativa e autrice che da molto tempo analizza in quest’ottica le pubblicità, le campagne di sensibilizzazione e la comunicazione aziendale, e propone alternative consapevoli e concrete.
Ella, tu sei stata tra le prime attiviste a denunciare e smascherare il sessismo che si annida nella comunicazione e nel linguaggio, usando gli strumenti propri del tuo lavoro. Quali alleanze hai trovato in questo tuo percorso?
Nel mio percorso professionale, ho scoperto che le alleanze più determinanti sono spesso silenziose e vengono dall’interno delle organizzazioni. Sono quelle persone che, senza necessariamente avere ruoli di potere, fanno quello che io chiamo “inside job”: un lavoro quotidiano, paziente e strategico di sensibilizzazione.
Ho trovato alleati\e preziosi in responsabili marketing che difendono scelte coraggiose davanti ai vertici, in brand manager che ripensano il posizionamento dei loro prodotti in ottica più inclusiva, in HR che inseriscono moduli sulla comunicazione inclusiva nella formazione aziendale. Questo network informale di “agenti del cambiamento” opera spesso sotto traccia, coglie i momenti giusti per far emergere certi temi, sa quando e come portare certi argomenti al tavolo decisionale.
È una strada difficile e lenta, ma ho imparato che il vero cambiamento non arriva tanto da grandi proclami esterni, quanto da questo paziente lavoro di trasformazione dall’interno. Sono queste figure che, conoscendo le dinamiche delle loro organizzazioni, riescono a far evolvere gradualmente la cultura aziendale verso una comunicazione più consapevole e responsabile.
Sei una direttrice creativa e affianchi imprese e organizzazioni nell'adottare quella che tu chiami una "comunicazione responsabile". Quali resistenze incontri rispetto all'adozione di una comunicazione e di un linguaggio più paritari?
Una delle resistenze più frequenti che incontro, specialmente nel contesto della comunicazione commerciale, è il timore che il linguaggio inclusivo “appesantisca” il messaggio o ne riduca l’efficacia. Ma c’è un equivoco di base: la comunicazione inclusiva non si limita all’uso dello schwa o degli asterischi – si tratta di ripensare sia il linguaggio che la rappresentazione, avendo bene sempre in mente di non ledere le persone – né chi rappresentiamo, né il nostro pubblico.
Quali ruoli assegniamo alle persone? In quali contesti le mostriamo? Quante volte vediamo donne manager non stereotipate, uomini che si occupano della casa, persone non conformi agli stereotipi di genere? Famiglie che escano dal modello “tradizionale”? La comunicazione inclusiva significa anche questo: mostrare la realtà nella sua diversità e ricchezza, non per “political correctness” ma per parlare davvero a un pubblico variegato, mutevole e contemporaneo.
Le resistenze più forti vengono spesso dai reparti marketing e dai clienti, preoccupati che questo approccio possa “sacrificare” l’incisività del messaggio commerciale o “indispettire” alcuni cluster. Ma l’esperienza, almeno la mia, dimostra il contrario: quando una comunicazione rispecchia autenticamente la società, diventa più rilevante e quindi più efficace. Non si tratta di seguire regole rigide, ma di sviluppare una sensibilità creativa che sappia coniugare inclusività e impatto commerciale.
È un cambio di paradigma che richiede di ripensare non solo le parole che usiamo, ma anche le immagini, le storie che raccontiamo e i modelli che proponiamo.
La vera sfida è culturale prima che linguistica.
Per il tuo ruolo e la tua formazione, nutri una grande fiducia nel potere delle parole. Hai incontrato esperienze particolarmente significative in cui l'intervento sul linguaggio ha generato un reale cambiamento? Quali sono secondo te gli ingredienti chiave di queste esperienze positive?
Nella mia esperienza professionale, ho visto cambiamenti concreti e significativi quando il linguaggio inclusivo è stato implementato come parte di una strategia più ampia di trasformazione aziendale. Gli ingredienti chiave di queste esperienze positive sono sempre stati molteplici e interconnessi.
Prima di tutto, è fondamentale un approccio graduale che parta dalla formazione e dalla sensibilizzazione. Non si può pretendere un cambiamento immediato: bisogna costruire consapevolezza, fornire strumenti, accompagnare le persone in questo percorso di trasformazione culturale. In secondo luogo, il coinvolgimento attivo del management è cruciale: quando la leadership comprendono e sostengono il cambiamento, questo fluisce più naturalmente attraverso tutta l’organizzazione.
Un elemento determinante è stata sempre la capacità di dimostrare che comunicazione responsabile e risultati di business non solo possono coesistere, ma si rafforzano a vicenda. Quando un’azienda vede che parlare in modo più inclusivo porta a una maggiore connessione con il proprio pubblico, il cambiamento viene percepito come un’opportunità, non come un vincolo.
Infine, la misurazione e la condivisione dei risultati positivi sono fondamentali. I dati sono nostri alleati: quando possiamo dimostrare che una campagna inclusiva ha generato maggiore engagement, ha raggiunto un pubblico più ampio o ha rafforzato la brand reputation, il cambiamento diventa irreversibile. Alcune campagne che ho sviluppato in questi anni hanno mostrato proprio questo: il linguaggio, quando usato consapevolmente, può davvero influenzare percezioni e comportamenti, generando impatto positivo sia per il business che per la società.
Chi ti piacerebbe riuscire a "contagiare" rispetto all'attenzione alla parità di genere, all'uso di un linguaggio non sessista e non escludente, a una comunicazione responsabile, per ottenere un cambiamento significativo negli equilibri di potere tra uomini e donne?
Dal punto di vista personale, ho imparato che essere selettivi nelle proprie “battaglie” è fondamentale per ottenere un impatto reale. Nel mio percorso, ho capito che vorrei particolarmente raggiungere chi ha il potere di influenzare le scelte comunicative delle grandi organizzazioni – non tanto per proselitismo intendiamoci, quanto per mostrare loro il valore concreto di una comunicazione più consapevole.
Mi concentro spesso su quelle figure che hanno un ruolo di ponte: direttori e direttrici marketing che possono influenzare sia le scelte interne che la comunicazione verso l’esterno, responsabili delle risorse umane che possono attivare programmi di formazione, manager intermedi che hanno il polso delle resistenze ma anche delle opportunità di cambiamento nelle loro organizzazioni.
Ho imparato a scegliere i momenti giusti, a parlare il linguaggio di chi ho di fronte – che spesso è quello dei risultati e del business – e soprattutto a non disperdere energie in battaglie che non porterebbero a nessun cambiamento concreto. A volte significa fare un passo indietro temporaneo per poi poterne fare due avanti, altre volte significa accettare un compromesso che apre la strada a trasformazioni più profonde.