Essere italiani
Che cosa significa vivere in Italia da italiano con radici straniere?
di Abdul Kobe Zar

Abdul Kobe Zar
Nasce ad Accra, in Ghana, nel 1989. Dopo la laurea in Giurisprudenza nel 2015, consegue il Master in Diritto Internazionale sui diritti
umani alla University of Westminster di Londra. Giurista, attivista e scrittore, porta avanti battaglie di sensibilizzazione sulla diversità etnico-culturale e di contrasto a fenomeni come il razzismo.
Quando si parla di tutto ciò che ruota intorno agli stranieri e ai loro diritti c’è una fetta di popolazione di cui si parla poco, persone sì legate in qualche modo all’immigrazione, ma che se ne discostano perché italiani di fatto o sulla carta: vengono chiamate nuovi italiani, italiani di seconda generazione, oppure italiani con origini straniere.
Ritengo la questione identitaria una cosa personale quindi in questa sede vorrei soffermarmi su questioni che raramente sono oggetto di dibattito. Che cosa significa essere italiani per un italiano con radici straniere?
Significa vivere in un limbo di identità in cui non sei mai abbastanza italiano e mai abbastanza cittadino di qualsiasi paese dal quale provengono i tuoi genitori.
Significa non avere un posto preciso nella società perché sei sempre considerato straniero.
Significa sentirsi dare costantemente del tu invece che del lei, ed essere soggetto a innumerevoli controlli di sicurezza e dei documenti da parte delle forze dell’ordine, e sentirsi chiedere come prima cosa il permesso di soggiorno. Significa dire “sono italiano” e sentirsi chiedere “sì, ma di dove sei in realtà?”
Significa questo e molto altro, ma andiamo per ordine.
In genere la fase dell’infanzia è quella più tranquilla. Si viene percepiti come esseri innocenti, guardati con occhi lucidi, spesso bagnati da pietismo. Eppure l’identità dei bambini è presto messa in discussione, perché la legge dice che nonostante una persona sia nata nel paese, da genitori che abitano da tempo sul territorio, non è italiana. Così, alcuni genitori ritirano i figli dagli asili perché ci sono “troppi stranieri”, quando di stranieri non ce ne sono affatto.
Tuttavia, è quando si diventa adolescenti in cerca del proprio posto nella società che ci si scontra con barriere fatte di “voi stranieri e noi italiani”, di affermazioni quali “dovreste essere grati che vi accogliamo” o il solito “tornatevene a casa vostra”.
Ti parlano di integrazione come se fosse un atto dovuto al fine di essere accettati in un paese che è già tuo, ma che fa di tutto per farti sentire ospite.
Un prodotto truffa che ti viene venduto dalla società come un atto nobile, mentre in realtà è un processo unilaterale che ti vuole un po’ più spoglio della tua identità verso una omologazione all’italiano medio nella folle ricerca di accettazione.
Di valorizzazione della diversità e di coesistenza non si parla mai.
Poi c’è la questione rappresentanza nei media e nella società. Per esempio in televisione è molto facile notare come la totalità di giornalisti, presentatori, conduttori ecc. sia bianca. Una fotografia che dipinge un’Italia in cui sembra non esserci diversità etnica alcuna.
Peggio della mancata rappresentazione c’è quella errata che dona un’immagine negativa, perpetrando pregiudizi onnipresenti come fantasmi perfettamente visibili.
Capita così di essere seguiti dalle guardie di un negozio, o fermati di continuo dalla polizia per i controlli, che partono quasi sempre con la richiesta di un permesso di soggiorno che una persona italiana non deve avere. E mentre c’è chi fa complimenti per come parli l’italiano, altri ti mettono nella lista di stranieri ma di “quelli bravi” perché il principio è che sei un pericolo fino a prova contraria.
Bisogna eccellere per essere considerati normali perché le qualifiche, i talenti, l’intelligenza e i sogni spariscono dietro il colore della pelle.
Si potrebbe parlare di tante cose, come della ricerca della casa che è per molte persone un evento traumatico, ma vorrei parlare di qualcosa di meno discusso: le aggressioni verbali razziste.
Di fronte ad insulti razzisti non c’è nulla nell’ordinamento giuridico che dia la possibilità di difendersi se non ricorrere all’ingiuria. Una fattispecie non più penale ma civile.
Dunque, per lo stato italiano un’aggressione verbale razzista ha lo stesso valore di un banale insulto, con un iter complicato che rende difficile riuscire a provare una colpevolezza, con la sola speranza di ottenere un risarcimento tra 200 e 12.000 euro.
Ecco quanto vale il razzismo in Italia.
Se è importante parlare di diritti, è utile anche ricordare che una parte del paese è ferma al fatto che non esistano italiani che non siano bianchi. Sono noti i casi di atleti della nazionale (per esempio Larissa Iapichino e Paola Egonu) che hanno subito attacchi sui social in merito alla loro identità. Viene da chiedersi allora cosa significhi essere italiani. Se non basta la conoscenza della lingua, l’essere nati o cresciuti in Italia, il percorso di studi, l’amore per la patria, la conoscenza della storia allora cosa rimane se non il colore della pelle?
Può davvero bastare solo questo per essere considerati italiani?
Verrebbe da dire di no, ma da un’analisi dell’attuale quadro sociale, politico e legislativo parrebbe proprio di sì. Vivere da italiani di origine straniera potrebbe essere una cosa più semplice, ma non lo è in un paese che soffre di neofobia e che cambia troppo lentamente rispetto alla velocità con la quale cambia la sua composizione demografica.