Ripensare l’inclusione della disabilità

Dal modello assistenziale alla partecipazione attiva

di Fabrizio Acanfora

Neurodiversità - Fabrizio Acanfora - ForAll

Fabrizio Acanfora

Nasce a Napoli nel 1975. Scrittore, musicista e attivista, è autore di saggi sulla neurodiversità e sulla società, tra cui Eccentrico (Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica, 2019), L’Errore e Di pari passo.

Dopo la diagnosi di autismo a 39 anni, dedica il suo lavoro alla promozione di una cultura inclusiva e alla critica delle narrazioni stereotipate sulla disabilità. È responsabile della comunicazione di Specialisterne Italia.

Negli ultimi anni molte aziende hanno compiuto passi importanti verso una maggiore attenzione alla diversità, ma sulla disabilità il percorso è ancora in evoluzione. Spesso l’inclusione viene affrontata come un obbligo normativo o un’iniziativa filantropica, più che come un vero investimento strategico.

Ma in un mercato del lavoro che richiede sempre più innovazione, adattabilità e intelligenza collettiva, la capacità di integrare prospettive diverse rappresenta un potente motore di crescita e competitività.

Lo scenario dei numeri

Secondo dati recenti, in Italia solo circa il 32,5% delle persone con disabilità nella fascia 15-64 anni ha un impiego, contro il 58,9% della media nazionale. In Europa, il tasso di occupazione delle persone con disabilità si attesta all’incirca al 50,6%, rispetto al 74,8% delle persone non disabili. Il divario di occupazione – il cosiddetto employment gap – è di oltre 20 punti percentuali. 

Questi numeri rappresentano la distanza tra il potenziale reale delle persone e la capacità delle organizzazioni di valorizzarlo. È una distanza culturale prima che operativa, e colmarla significa passare da un’idea di inclusione come gesto riparativo a una visione strategica fondata sulla partecipazione attiva.

Da disabilità a disabilitazione

Il modello tradizionale – definito “medico” – considera la disabilità come un attributo della persona, una limitazione da compensare o superare attraverso strumenti o supporti. Il modello sociale, nato negli anni Ottanta grazie ai movimenti per i diritti delle persone con disabilità, invece ribalta la prospettiva: la disabilità non coincide con il grado di autonomia o di funzionamento individuale, ma emerge quando barriere ambientali, culturali o organizzative ostacolano la partecipazione piena.

In questo senso, parlare di disabilitazione significa riconoscere che non è la persona a dover essere inserita in un sistema già definito, ma è il sistema – azienda, scuola, società – che può diventare disabilitante quando ignora la naturale variabilità umana. 

Questo sposta la responsabilità dall’individuo alla società, e con essa la possibilità di incidere sulle sue cause.

Riconoscere la disabilitazione, dunque, non serve a individuare colpe ma a cercare margini d’azione per comprendere che ogni barriera è, in fondo, un’occasione di progettazione mancata, e che proprio le aziende – con la loro capacità di innovare, sperimentare e ridefinire processi – possono trasformare questa consapevolezza in pratica quotidiana.

Implicazioni per le aziende

Quando un’impresa adotta questa prospettiva, succedono almeno tre cose:

  • Ridefinizione dei processi: la progettazione non si limita più ad adattare postazioni o installare rampe, ma coinvolge direttamente le persone disabilitate nella definizione di spazi, orari, tecnologie e modalità di comunicazione, rendendo visibili anche le barriere più sottili.
  • Partecipazione attiva: passiamo da “inserire qualcuno nel nostro sistema” a “co-progettare insieme il sistema”. Le persone che affrontano quotidianamente un ambiente non progettato per loro sviluppano sensibilità, soluzioni alternative, creatività: come disse l’attivista Liz Jackson, sono veri e propri life hackers.
  • Vantaggio competitivo: Le aziende realmente accessibili alle persone con disabilità migliorano processi, si adattano meglio a bisogni variabili, risultano più resilienti e più attrattive per talenti diversi; ricerche recenti indicano che i “champions” dell’inclusione sono circa il 25% più produttive.

Come trasformare l’inclusione in valore aziendale

Per passare dalle dichiarazioni di principio a un reale cambiamento culturale, serve un processo di trasformazione che coinvolga l’intera organizzazione. Il primo passo è una mappatura delle barriere non solo architettoniche, anche quelle più sottili – culturali, procedurali, comunicative, relazionali – che ostacolano la partecipazione piena. Farlo in modo partecipativo, con il contributo diretto delle persone disabilitate, permette di individuare criticità invisibili a chi non le vive quotidianamente.

A questo deve seguire un coinvolgimento reale nei processi decisionali, perché la progettazione di politiche, strumenti e ambienti di lavoro non può prescindere da chi ne farà uso. Solo così l’inclusione diventa co-progettazione e non semplice adattamento. Fondamentale è poi la formazione, intesa come percorso di apprendimento collettivo che aiuti a ripensare linguaggi, relazioni e pratiche di lavoro in chiave accessibile.

Infine, per rendere duratura questa trasformazione è necessario misurare e comunicare i risultati: quante persone sono state assunte, quante partecipano attivamente, crescono professionalmente, restano nel tempo. Spostare l’attenzione dagli obblighi alle opportunità significa trasformare l’inclusione in una strategia di valore condiviso, capace di generare impatto sociale e vantaggio competitivo.

Dall’inclusione alla partecipazione attiva

Ripensare l’inclusione della disabilità, per un’azienda significa uscire da un modello passivo e paternalistico di accoglienza e inclusione, ed entrare in un modello strategico di convivenza e partecipazione attiva. Per le imprese che vogliono essere all’avanguardia, non è sufficiente “fare qualcosa per” le persone disabili: bisogna fare “con” loro. L’impegno, la progettualità e il coinvolgimento diretto vanno inseriti nella cultura aziendale, perché la diversità non è un costo aggiuntivo ma motore di trasformazione.

Mettere in pratica questi processi non è solo una questione di giustizia sociale, ma rappresenta un vantaggio competitivo in un mondo che chiede flessibilità, innovazione e partecipazione. L’inclusione non è un’aspirazione, ma deve diventare una strategia a vantaggio di tutta la comunità aziendale.

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